Un eremo nascosto, una cascata di più di 80 metri; gli Ernici fantastici!

L'eremo del Cauto e la cascata di Zompo lo Schioppo


Dopo Sora, lungo la val Roveto sfilano sulla sinistra gli Ernici e la piramide del Pizzo Deta è il solito monumento naturale che non passa inosservato; dall’altra parte della valle, sulla lunga dorsale della Serra Lunga, il Cornacchia si confonde in una molteplicità di tonde cime. Quando l’elegante profilo del Viglio, con ancora molte lingue di neve che scendono dal versante Sud-Est, si erge là davanti capiamo che siamo arrivati a destinazione. Uscita Morino, l’indicazione turistica del consueto color marrone indica l’attrazione principale, la cascata di Zompo lo Schioppo. Una valle laterale minore, dominata dai ruderi dell’antica Morino, oggi in recupero, ieri disastrosamente distrutta dal terremoto di Avezzano dei primi del ‘900, si chiude in un anfiteatro boscoso dominata al centro dal profondo getto della cascata già visibile da lontano. A corona dell’anfiteatro, sopra il fitto bosco, la lunga cresta innevata del monte Femmina Morta e del Crepacuore, la nostra meta di oggi. Tra i Cantari e gli Ernici, un po’ degli uni ed un po’ degli altri, anello di congiunzione più che area geograficamente ben definita, questa valletta secondaria, con la sua cascata, col suo anfiteatro boscoso è stato uno dei miei primi amori dell’Appennino laziale-abruzzese; è un luogo stupendamente ameno, suggestivo ed oggi per via dell’attrattiva della cascata anche molto frequentato dai turisti della Domenica. La cascata di Zompo lo Schioppo con il suo getto che sgorga da oltre 80 mt di altezza è la seconda più alta degli Appennini, dopo quella di Rio Verde nel chietino; se consideriamo che il suo è un salto unico, diversamente dai tre del Rio Verde mi piace pensare che sia la più alta in assoluto. In questo periodo di disgelo la sua portata è ai massimi regimi, forse sarà impossibile raggiungerne la base come in altri momenti ho fatto e comunque non rappresenta l’obiettivo principale che è e rimane il monte Crepacuore. Direzione Grancia, poco oltre Morino, raggiungiamo la centrale dell’Enel, è lungo la strada impossibile non vederla anche perché di fronte le acque cristalline che ristagnano prima di prendere la fuga verso valle attirano certamente l’attenzione; immediatamente oltre la centrale la strada gira decisamente a sinistra, verso l’area attrezzata punto di avvicinamento alla cascata, ma non dobbiamo seguirla, praticamente attigua alla centrale si stacca una stradina asfaltata in salita, la prendiamo fino a raggiungere il piccolo laghetto recintato a monte, serbatoio di rifornimento della centrale stessa. Parcheggiamo intorno al lago dove ci sono ampi spazi, si potrebbe continuare in auto ma il luogo fa esigere rispetto e preferiamo continuare a piedi. Il lago è a quota 670 mt davanti, fino al Crepacuore abbiamo un salto di quasi 1300 mt. Superato un ponticello ed il recinto del laghetto, la carrareccia, ora diventata sentiero, vira decisamente verso Ovest, verso la cascata, alcuni segnavia ed una freccia indicano chiaramente il percorso (non fatevi sviare da un piccolo sentiero che sale davanti). La strada è pianeggiante, scorre nel mezzo di un basso bosco, tra rovi, ginepri e querce di piccolo taglio, assolata come è intuiamo che potrebbe essere terreno di raccolta per asparagi ed è bastato prestare un minimo di attenzione per raccogliere i primi frutti; Marina si fa prendere, busta alla mano rimane sempre indietro, non è una raccolta da far invidia ma la soddisfazione c’è. La cosa però ci rallenta non poco, ma fa niente, il clima è piacevole e caldo, l’ideale per ritrovare quel pò di calma e quella serenità che mio padre si è portata via con lui. La carrareccia sfila attraverso vari ambienti che contendono spazio alla boscaglia: alcuni orti, l’acqua di certo non manca da queste parti, qualche recinto per il bestiame, poi attraversiamo un suggestivo uliveto fino, dopo un paio di tornanti, ad accostarci alle pareti rocciose della montagna; la forra della cascata di Zompo lo Schioppo si è andata via via nascondendo dietro lo sperone boscoso che la delimita ed anche il sottofondo costante dello scorrere dell’acqua è sparito alla percezione. Quando ci si fa vicini alla parete rocciosa la strada si restringe gradatamente fino ad assumere i connotati di un sentiero; muretti a secco lo proteggono dai tanti fossi che scendono dai fianchi della montagna, alcuni sono perfettamente manutenuti, su di uno la data del 1926 scritta probabilmente con un dito quando il cemento era ancora fresco ne sancisce anche la data del probabile ultimo intervento. Ora il sentiero inizia a salire, bei tornanti pietrosi stretti e appiccicati alla roccia verticale del costone fanno guadagnare velocemente quota fino ad arrivare ad una madonnina appoggiata su un costone panoramico come fosse a guardia della sottostante panoramicissima valle; la vista raccoglie tutto, il laghetto da dove siamo partiti, Morino, la val Roveto ed il Cornacchia ancora leggermente incappucciato di neve sulla dorsale oltre la valle principale. Poco oltre la madonnina il sentiero appoggia prima e poi si divide; un cartello indica che anche a destra si va per il Crepacuore, per un sentiero destinato ai soli escursionisti esperti, sulla carta non ne ce ne è traccia; la curiosità è stuzzicata, la costringiamo a tacere e lo annoveriamo tra i progetti da fare, andare a scoprire un sentiero meno noto e conosciuto potrebbe essere un bel modo per conoscere meglio queste montagne. Il sentiero ora breccioso scontorna uno sperone mentre si fa forte il rumore di un torrente in piena, supera un dosso proprio sullo spigolo e leggermente in discesa rientra nel bosco, ora fitto a faggeta; il fragore dell’acqua aumenta, suggerisce la presenza di una cascata nelle vicinanze, che presto si materializza. Un piccolo salto di pochi metri è molto scenografico, di fronte, a pochi metri c’è il guado del fosso, siamo costretti ad entrare con gli scarponi nell’acqua. Subito dopo il sentiero inizia ad inerpicarsi con frequenti tornanti immerso in meravigliose fioriture bianco-violacee di un mare di ranuncolacee o anche Anemoni appenninici. I faggi, alti e fitti sono ancora spogli, le gemme stanno aprendosi ora, la brezza filtra e non si vive quel senso di soffocamento tipico dei boschi. Si sale ancora fin tanto che il sentiero spiana e gira verso sud, ora la pendenza è minore, in pratica si scontorna l’anfiteatro della cascata e si ha la sensazione di starla a superare sulla verticale. Tutto tace però, lo scroscio della grossa cascata non si sente, è solo una questione di orientamento la mia. Il sentiero prevalentemente traversa l’anfiteatro della valle, sale lento ed inizia a sfiorare un roccione che ricorda in certi tratti l’arenaria della Laga; ma qui è tutto calcare, sbalzi rocciosi formano grotte aperte, qualche piccola frana denota l’instabilità del territorio. Un cartello, mentre si oltrepassa un fosso, invita a non scendere troppo al suo interno perché, invisibile, poco sotto si apre l’abisso, segno che siamo più o meno sulla verticale della cascata, sopra quei costoni ripidi che si vedono dalla valle. Il sentiero riprende a salire fino ad un nuovo incrocio dove alcuni cartelli indicano chiaramente le direzioni. Sopra, in alto davanti a noi per il monte Crepacuore, continuando diritti si va invece verso l’Eremo del Cauto, anche chiamato di Santa Maria del Pertuso. Pensavo che dall’eremo si passasse per arrivare al Crepacuore, per un attimo mi sono smarrito ed è stato in questo momento che ho deciso di variare il percorso, su due piedi, con grande approvazione di Marina. L’Eremo poteva diventare la nostra meta per poi continuare il giro sul sentiero che aggira l’anfiteatro. Prima di proseguire per l’eremo mi ha incuriosito il tratto di sentiero che continuava per il Crepacuore; saliva in mezzo a grosse pietre ricoperte da spessi cuscini di muschio, in mezzo a radi faggi le cui radici componevano autentiche sculture abbracciando come potevano le tante rocce disseminate sul percorso e si infilava in un piccolo anfiteatro roccioso, autentiche falesie alte e ripide; mi incuriosiva come il sentiero potesse superare quel salto ed ho chiesto a Marina di attendermi un attimo, sarei andato a curiosare in quell’ambiente da favola. Si sale per poco un labirinto di roccioni dove la fittissima segnaletica è ormai quasi sistematicamente ricoperta dal muschio e si arriva alla base della falesia, alla base di quello che sembra essere un pozzo, una dolina con un lato aperto; sulla destra si apre una feritoia tra la parete e l’ultimo costone che ne delimita il perimetro; bandiere giallo-rosse indicano la strada che si perde nel buio della grotta. Sapevo dell’esistenza lungo il percorso di un passaggio-galleria, finalmente ci ero arrivato davanti, stavo per aggiungere un’altra chicca appenninica al mio CV da escursionista. Faccio salire Marina, ne valeva la pena ed insieme ci infiliamo nel “buco” che attorcigliandosi un po’ su se stesso sale fino a farti uscire sopra le falesie. Si tratta del famoso Buco del Cauto, passaggio obbligato lungo la via al Crepacuore. Per curiosità avanzo ancora un po’, entro in un ambiente boscoso ancora più fitto, tra le fronde degli alberi ancora spoglie si intravedono le creste imbiancate dei monti che avevamo davanti, probabilmente il Crepacuore stesso ed il Femmina Morta che non si riuscivano a distinguere bene; il nostro obiettivo era però cambiato e non ci siamo lasciati distrarre. Torniamo sui nostri passi, ripercorriamo il Buco del Cauto e prendiamo per l’eremo, un cartello indica ancora una mezz’ora di percorso. Si sale repentinamente, si ode lontano il fragore dell’acqua, tra gli alberi scorgiamo lontana la bocca rigogliosa della cascata; dopo un paio di saliscendi un parapetto lungo il sentiero ci fa intuire un luogo frequentato, era passata molto meno di mezz’ora e non pensavamo all’eremo, ed invece, dopo una grotta aperta e superata una parete spiovente ci si para davanti la costruzione in mattonato incastrata nella roccia. Due piani di costruzione, una gradinata che aiuta l’accesso, la campana davanti alla facciata, era lui, semplice e bello come qualcosa che non ti aspetti, a dare al luogo di per se già intimo una suggestione in più. Saliamo i gradini rocciosi e ben scolpiti, il pianerottolo davanti protetto da una balaustra apre lo sguardo su tutto l’ambiente intorno immerso nel bosco e posto in prossimità di una sella ormai fuori dall’anfiteatro della cascata. La porta dell’eremo è tenuta chiusa alla maniera dei pastori, una corda legata alla porta e ad un ramo che è di traverso alle mura di accesso la tiene chiusa; molto timidamente, quasi a sentirsi colpevoli di interrompere quel momento di quiete assoluta apriamo la porta ormai estremamente curiosi. L’eremo è formato da un unico ambiente, povero di suppellettili, un piccolo altare sotto una volta e a lato un tavolino con poche candele spente ed un diario dove porre le facili suggestioni che entrando in un luogo del genere inevitabilmente nascono. La piccola volta è affrescata, affreschi un po’ rovinati dall’umidità ma ancora leggibili; la storia colloca la piccola costruzione nell’alto medioevo, le prime informazioni risalgono all’anno 1174, era l’epoca degli asceti e degli eremiti, facile intuire che la zona fosse appetibile a chi della solitudine facesse una ragione di vita. Sostiamo in questo luogo ameno, non rinuncio al ricordo di mio padre e a dedicargli un pensiero sul diario della cappellina, e a malincuore riprendiamo la via del ritorno. Ma la giornata non avrebbe smesso di regalarci sorprese, desistiamo dal continuare il giro che perimetra l’anfiteatro, riprendiamo a ritroso perché è più breve e vorremmo avere il tempo per raggiungere la cascata. Mai scelta fu più propizia; una volta scesi dalla montagna, nei pressi dell’uliveto ormai a valle prendiamo una piccola carrareccia che si stacca sulla destra e che scende verso il torrente Roveto che nasce dalla cascata di Zompo lo Schioppo. Perché la scelta fu propizia è presto detto: prima carrabile, al termine dell’uliveto il tracciato si fa sentiero, scende a tratti ripido nel mezzo della macchia fino a raggiungere di nuovo il bosco nei pressi del fosso che è gonfio d’acqua; grossi salti quanto rumorosi sono di un scenografia unica, il sentiero che viene dal campeggio è la sopra, oltre il fosso e la scarpata, ma è impossibile raggiungerlo, troppo gonfio d’acqua il fosso e troppo impetuosa la corrente. Prendiamo a scivolare a lato del fosso stesso, a risalire la valle, verso la forra; di tanto in tanto entriamo nel corso del fosso, laghetti e cascate ne fanno un rumoroso paradiso. Tra labili segni di sentiero ed in mezzo agli alberi riusciamo a risalire la valle all’asciutto, il dubbio di farcela ad arrivare alla base della cascata ci coglie, ma fin tanto avremo modo di fare il passo successivo ci avremmo provato; di certo sull’altro versante sarebbe stato proibitivo causa l’impossibilità di guadare il flusso principale del fosso. Raggiungiamo la strettoia della forra, c’è poco spazio per passare ma un filo di sentiero, quasi da capre, inconsistente e franoso, appiccicato alla parete verticale, continua a darci speranze. Come mosche attaccate alla calda pietra della parete scivoliamo oltre, litigando con degli alberi che a stento riescono a rimanere appigliati a quell’instabile greto del fosso. Il tratto è breve, siamo di là, dove la valle si riallarga, dove iniziano s correre rivoli in ogni dove. Prima ripida e instabile, poi più abbordabile e ricca di opzioni la valle si fa salire avventurosamente, molti guadi, in alcuni occorre immergere gli scarponi, ci divertiamo come pazzi, anzi come bambini. Sull’altro versante, dall’altra parte del fosso, probabilmente all’altezza del primo laghetto, si sente uno schiamazzare allegro e sguaiato di una comitiva di ragazzi, ogni tanto qualcuno spunta tra la boscaglia e sparisce di colpo, di certo si stanno tuffando incuranti della bassa temperatura dell’acqua e certamente favoriti da una delle prime giornate primaverili. Ormai tra gli alberi si intravede il grosso salto della cascata, ci arriviamo quasi sotto e dobbiamo destreggiarci tra i rigagnoli che scendono ovunque per arrivarci. Impossibile non tenere i piedi a bagno, dobbiamo solo stare attenti a non metterli nei grossi cuscini di muschio o d’erba che uno si ed uno no nascondono ristagni d’acqua. Siamo sotto l’alta parete, a fianco del salto, secondari fili d’acqua che scendono dall’alto spinti dalla leggera brezza che tira, ci piovono addosso quasi polverizzati; troviamo rade piazzole asciutte dove poter sostare e goderci questo posto unico e meraviglioso. La portata è probabilmente ai suoi massimi, favorita dalle temperature calde degli ultimi giorni il getto è carico di tutte le acque di scolo e di scongelamento della montagna. Peccato che con un sole allo zenit il controsole sia spinto, è quasi impossibile fissare lo sguardo alla bocca della cascata per più di pochi secondi, credo che anche le fotografie che scattiamo non ci riconsegneranno fedelmente ciò che si sta indelebilmente fissando nella nostra memoria. La parete della montagna è scura, una parte del getto ci scivola sopra, una parte cade fragorosamente dentro il piccolo laghetto che si è formato alla base, un’altra ancora si polverizza nell’aria sfrangiata dalla brezza che si infila nella valle. Il laghetto che si forma alla base della cascata si riversa e straborda in mille rivoli scendendo dalla pietraia e riversandosi sulla valle sottostante. Bisogna esserci e starci, fermarsi, girarsi e rigirarsi mille volte in un posto del genere, cogliere ogni particolare, ogni dettaglio, è un angolo di paradiso, è sicuramente un posto di una unicità stupefacente, un microcosmo unico. Noi tutti che giriamo per monti, che siamo abituati ai grandi spazi, alle creste, alle vette, sappiamo bene che la natura ha mille modi di esprimersi, in questo dove siamo oggi, un angolo infinitesimale di mondo, quasi nascosto alla vista se pur così vicino alle “grandi rotte”, è insieme potente ed intima, spettacolare e onirica. La ripida parete gira a formare un piccolo anfiteatro, rocciosa dove la violenza dell’acqua impedisce ogni forma di vegetazione, fittamente boscosa e altrettanto ripida poco più in là, si chiude verso valle a formare una strettoia, quasi un forra e nel mezzo decine e decine di ruscelli che scendono senza una regola a sfruttare le pendenze naturali del terreno. Più giù tutti questi rivoli confluiscono nel fosso principale, che oggi è particolarmente gonfio e rumoroso; la corrente principale, quella che raccoglie la maggior parte del salto della cascata scivola sulla destra orografica e forma tre distinte piccole cascatelle che a loro volta formano tre pozze dai colori impossibili e profondi (oggi non li ho potuti vedere, sono frutto di esperienze passate). Sopra lo sperone a destra che chiude la forra un escursionista si gode lo scenario dall’alto, per un attimo l’ho invidiato per il magnifico punto di osservazione che si è andato a guadagnare, poi ho pensato che magari lui stava facendo la stessa cosa nei nostri confronti. Ci siamo salutati da lontano, uniti da ciò che in maniera diversa stavamo vivendo con la stessa intensità emotiva. Magnifico momento, da non far finire mai. Marina, che tante volte mi ha sentito parlare di questa cascata sugli Ernici è entusiasta ed euforica, si è divertita da matti, per una come lei che ama così tanto la natura questi posti sono vere e proprie chicche. Ma il momento del ritorno arriva ed è lei che prende l’iniziativa; ritroviamo facilmente i passaggi in cui siamo saliti, i guadi, la sottile lama di sentiero che scivola attaccato alla montagna e siamo fuori dalla forra; attraversiamo il bosco e riusciamo nella bassa boscaglia che prelude l’uliveto, non rimane che riprendere la carrareccia e filare verso il laghetto dove abbiamo parcheggiato l’auto. Qualche foto per riprendere l’intero anfiteatro da sotto e qualche digressione dentro le fratte lungo la strada per rimpinguare il raccolto degli asparagi e siamo al laghetto. Oggi la montagna è stata solo lo sfondo della nostra giornata, il ruolo primario l’ha avuta la natura in senso più ampio, un trionfo di paesaggi, di luoghi e situazioni diverse, ora intime ora potenti, tutte però in grado di darti quel qualcosa in più. Oggi le gambe non hanno lavorato da sole, oggi anche il cuore e la testa hanno avuto il loro bel da fare per raccogliere e trattenere tante intime emozioni.


Dedicata a mio padre.